Un pomeriggio trascorso in campo con Jannik Sinner avrebbe cambiato le sorti della sua carriera: ecco cosa è successo quel giorno a Montecarlo.
Non servono discorsi solenni per riportare una persona, un amico magari, sui propri passi. A volte, come in questo caso, basta anche solo un pomeriggio di tennis. Non è servito nient’altro, o almeno così pare, al campione che ha deciso di vuotare il sacco in merito ad una sua recente decisione.

Matteo Berrettini, è di lui che stiamo parlando, ha rivelato a Torino, dove si sta preparando in vista della Coppa Davis, che galeotto, nei mesi scorsi, è stato l’allenamento con Jannik Sinner. A sentir lui, infatti, sarebbe stata proprio quella sessione, condivisa con il numero 1 del mondo nella cornice di Montecarlo, a segnare una svolta. Quello, dice, è stato il momento in cui ha capito che non era ancora il momento di dire addio.
“Allenarmi con lui mi ha aiutato – ha rivelato – Mi sono accorto che mi piaceva colpire la palla con la racchetta, il suono che usciva dalle corde. Mi piaceva proprio. Lì ho capito che per me non era ancora il momento di lasciare”. Parole semplici ma potentissime e sincere, le sue, che mettono a nudo la fragilità e la forza di un atleta che negli ultimi anni, per forza di cose, ha dovuto reinventarsi più e più volte.
L’allenamento-rinascita che ha cambiato tutto
Gli infortuni, la pressione, i dubbi. Berrettini non lo nega: ci sono stati giorni bui, momenti in cui si è chiesto se valesse ancora la pena. Ma quel confronto in campo con Sinner, giovane, metodico, concentrato, gli ha restituito la sensazione più importante: la gioia di giocare.

Non è un caso che proprio adesso, alla vigilia della Davis, Berrettini appaia più sereno. Ha ringraziato Sinner non solo per i risultati che hanno elevato tutto il tennis italiano, ma per l’ispirazione silenziosa che ha saputo trasmettere. “Se penso a quello che ha fatto negli ultimi due anni, è impressionante”, ha aggiunto il romano.
E così, da Montecarlo a Torino, tra dubbi superati e nuove motivazioni, Berrettini ha ritrovato la sua strada. E non serve un trofeo per chiamarlo ritorno: a volte basta il suono di una palla ben colpita per capire che il cuore è ancora lì. Nonostante tutto.



